La Teleferica

Tratto dal libro “Il PONTE” di Augusto Robiati

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In quel tempo iniziarono le prime avvisaglie del conflitto tra l’Italia e l’Etiopia, che scoppiò nella sua durezza e totalità verso la fine del 1935.
In Italia questo conflitto fu molto sentito e molti italiani giovani e anziani vi parteciparono come soldati o come borghesi. Andarvi era letteralmente un sogno e così fu anche per me. Bisognava però trovare il modo, e l’occasione si presentò presto. Una ditta di Milano, la Ceretti e Tanfani, vinse l’appalto per la costruzione di una teleferica fra il mare e l’altopiano, per risolvere, in assenza di una rotabile efficiente, il problema dei trasporti. Quella da Massaua all’Asmara era solo una pista e la sua trasformazione in strada avrebbe
richiesto, a causa del terreno montagnoso e impervio, tempi lunghi. La teleferica serviva anche per portare sull’altipiano munizioni per l’esercito. Credo fosse una fra le più lunghe teleferiche del mondo se
non la più lunga. (Vedi Appendice 1). La Ceretti necessitava anche di alcuni geometri esperti in rilievi e tracciati topografici. I candidati dovevano possedere una conoscenza approfondita del tacheometro,
strumento di rileva zio ne planimetrica e altimetrica. Il lavoro era allettante anche per i notevoli emolumenti: circa duemilacinquecento lire al mese oltre al vitto e alloggio. A Perrero ne guadagnavo circa quattrocento e a Milano seicento. Quindi il salto era notevole. Si trattava però di
operare in un territorio difficile, entro valli scoscese e pericolose e, nel bassopiano verso Massaua, sotto un sole infernale e fare giornalmente vari chilometri avanti e indietro e ciò, era facile intuirlo, sarebbe stato,
come in effetti fu, stressante. Io il tacheometro lo avevo studiato a scuola nelle sue linee generali, e
adoperato qualche volta durante le esercitazioni di gruppo, ma da questo a dire che potevo tranquillamente usarlo, la distanza era grande. Seppi dai colleghi già intervistati che il tacheometro sul quale venivano esaminati i candidati era un modernissimo Zeiss, così pensai che la cosa
più logica da farsi, e che feci, fu di andare alla Zeiss. Finsi di essere un possibile acquirente, e ottenni tutte le possibili informazioni. Ma come potevo sperare di riuscire quando i candidati erano una settantina e posti tre? Fu così che nella mia mente incominciò a balenare un’idea che, a mano a mano, divenne fissa e ossessiva. Si trattava di un pensiero assurdo, frutto di una mente fantasiosa, forse ispirata. Avrei dovuto
telefonare alla Ceretti e Tanfani, chiedere del direttore del personale, qualificarmi come la voce del segretario del sindacato geometri della provincia di Milano, di cui ben conoscevo il nome e auto raccomandarmi. Era un’idea pericolosa, che poteva avere gravi conseguenze, e se scoperta
mi avrebbe, come minimo, bloccato la possibilità dell’assunzione. Nella mia mente si erano costituiti due partiti opposti, dare seguito all’idea o no. La decisione non poteva che essere mia. Inutile sarebbe stato
chiedere consigli in giro e tanto meno in famiglia. Decisi per il sì. Chiamai la ditta dal telefono dell’ufficio del cantiere. Il mio cuore batteva al massimo. Chiesi di parlare con il direttore del personale. Me lo passarono. Mi qualificai, come prima accennato, per il segretario del sindacato geometri della-provincia di Milano. Mi scusai per il disturbo. Dissi che avevo saputo che la loro ditta doveva assumere dei geometri, così mi permettevo di segnalare il nome di un iscritto al sindacato, di cui mi erano note serietà e capacità. La telefonata durò pochi secondi. Avevo preparato accuratamente la telefonata ed eventuali varianti, se le cose non fossero andate come previsto. Ma tutto funzionò alla perfezione. Dopo pochi giorni ricevetti a casa un biglietto della Ceretti. Mi invitano a un colloquio. Mi presentai. Mi sottoposero a una prova d’uso del tacheometro e tutto andò bene. C’era il pericolo che il direttore del personale, telefonasse o facesse telefonare al sindacato, dando notizia che il geometra segnalato era stato assunto. Si trattava di un pericolo reale e logico a cui – nell’ansia di porre in atto la telefonata – non avevo dato sufficiente spazio. Non posso dire se la telefonata fu fatta o meno. So solo che fui assunto. Ero uno dei tre fortunati. La mano del destino mi apriva la porta verso l’Africa, che sarà, per i motivi che emergeranno in seguito, una tappa fondamentale della mia vita materiale e spirituale. Un anno dopo, al mio rientro in licenza, visitai il segretario del sindacato, geometra Pennati, che era stato strumento involontario della citata mano del destino. Gli raccontai, con dovizia di particolari, ciò che avevo fatto. Qualcuno potrebbe chiedersi perché l’ho fatto? La sua reazione poteva essere pericolosa. Forse lo feci per vanità o per un bisogno di sincerità. Tutto ciò che disse concentrato nella frase: «Audax fortuna juvat».

Per pareggiare il conto mi pregò di inviargli, al mio rientro in Africa, alcuni articoli per la rivista del sindacato, il che feci

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Non ricordo quale fu l’impatto sulla famiglia della mia assunzione alla Ceretti e conseguente partenza per l’Eritrea. Sarei salpato da Napoli ai primi di Settembre 1935 su un piroscafo da carico adibito anche a trasporto passeggeri. Certo in famiglia si era consci dell’utilità di tutto ciò, sia per motivi economici, sia perché si pensava che fosse giunto il momento per me di iniziare una vita indipendente, traguardo a cui ogni giovane aspira. Avevo oramai ventitré anni. Vi era però il fatto affettivo. Nonostante le mie passate birichinate o malefatte ero il cocco della mamma e certo per lei fu un trauma. Solo oggi che sono genitore mi rendo conto di ciò. Per quanto riguarda il viaggio, a quel tempo ci si muoveva da casa poco. Credo che l’unico viaggio fatto, nella loro vita, dai miei genitori fu quello di nozze a Venezia. Che emozione! lo avrò fatto, con treni e aerei, almeno come tre volte il giro della terra, e oggi per me viaggiare è solo un fastidio. Ma a quei tempi invece la prospettiva di quel viaggio era allettante.

Mia madre si preoccupò subito – da persona pratica com’era – del vestiario. L’unica sartoria che dava affidamento, era a suo parere, l’Unione Militare ed è là che andammo. Mi confezionarono due divise
complete, tipo militare, con giacca sahariana e stivaloni. Tutto di lana. Questi abiti si rivelarono adatti per l’altopiano eritreo dove la tempera- tura è sempre fresca e, durante i mesi invernali, anche fredda. Ma per
il bassopiano no. lo sarei arrivato a Massaua in pieno settembre e li è ancora estate, con temperature prossime ai quaranta gradi all’ombra e con tassi di umidità anche del novanta per cento. All’Unione Militare avrebbero dovuto saperlo. Così lungo l’ultimo tratto nel Mar Rosso e poi a Massaua, sudai con quella divisa addosso sette camicie, oltre al fatto che ero ridicolo. Così mi disse anche un amico della famiglia Vela di Perrero, medico dell’ospedale di Massaua, dove mi recai a portare i loro saluti.

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La navigazione sul Mar Rosso fu abbastanza monotona. La navicella stava abbastanza lontana dalle due opposte coste che, del resto, dopo il canale, si allontanano, per poi riavvicinarsi ancora verso Aden. Passavo
molte ore a prua, con le gambe divaricate attorno alla sua parte terminale che, essendo aperta nella sua parte inferiore, consentiva di tenere quella posizione, e guardavo le onde infrangersi sull’angolo
tagliente della prua. Ero spesso assorto nei miei pensieri. Certo non sapevo che i rilievi della teleferica non sarebbero stati per me che la punta avanzata di altre attività, come quelle stradali nel territorio etiopico, e questo solo dopo pochi mesi dal mio sbarco a Massaua. In effetti sarà proprio nei primi giorni di ottobre di quello storico anno, il 1935, che le truppe italiane, al comando del generale De Bono, varcarono
dall’Eritrea i confini con l’Etiopia

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Finalmente arrivammo in vista di Massaua”. Era l’imbrunire. Credo che il comandante avesse programmato di arrivare appunto verso sera per attutire il tremendo effetto del caldo umido. Benché fosse sera l’impatto fu scioccante. Va tenuto conto del fatto che durante la navigazione il sole c’era e forte, ma l’arietta, che il movimento della nave produceva, ne attutiva l’effetto. Lì nel porto, senz’aria e con un tasso altissimo di umidità era proprio come essere in una sauna. Arrivando a Massaua si entra in una specie di insenatura e si vedono subito le due isole quella di
Massaua, propriamente detta, e quella di Taulud ambedue collegate fra loro e con la terra ferma tramite strade costruite sopra riempimenti di pietrame nel mare, dato che in quella zona è poco profondo. Nell’avvicinamento al porto si vede anche bene la baia di Gurgusum. Anni dopo apprezzeremo la spiaggia di questa baia, per la sua ampiezza, il suo mare cristallino e la sua sabbia bianca e finissima. Però attenzione perché la
zona è infestata di meduse: pesci a forma piatta fatti di materiale gelatinoso che, se le ‘tocchi, producono sulla pelle un tremendo prurito. TI contatto con la cittadina fu simpatico. Tutto quello che si vedeva era nuovo, perché Massaua era stata ricostruita dopo il terremoto del 1921. Si trattava di palazzine bianche a porticato con archi di stile orientale. Lo sbarco definitivo sarebbe avvenuto la mattina dopo, ma intanto ci fu dato il permesso di scendere un paio d’ore a terra. lo mi vestii con l’unico abito che avevo, quello famoso dell’unione militare, con gli stivali. Fu una vera e propria tragedia. La gente che mi vedeva, mi guardava con curiosità. Forse avranno pensato: «Questo signore viene dal polo nord e non sa che qui si amò’ ancora in piena estate». Per la prima volta nella mia vita vidi dal vero, perché prima li avevo visti solo nei film, gli africani. Rilevai che la loro pelle più che scura era nera; alcuni proprio come il carbone. I musulmani si distinguevano dagli altri perché mi sembravano meglio vestiti. Almeno questa fu la mia prima impressione. In testa avevano il turbante, loro particolare e tipico copricapo. In genere tutti avevano pantaloni lunghi a tubo di tela bianca e leggera a vita, e poi llna specie di mantello o di scialle anch’esso della stessa tela bianca. E lo sciamma, e la tela usata è un particolare tipo di cotone chiamato abugiadid. Due cose mi fecero particolare impressione. La prima che gli africani si soffiavano il naso con le mani proiettando il flusso nasale a terra, e c’era il rischio di divenire inconsci bersagli. La seconda, i bambini con gli occhi e la bocca pieni di mosche che nessuno si curava di scacciare. Evidentemente era un patto imposto. «Noi mosche, lì, mangiammo e beviamo e vogliamo esser lasciate tranquille». Gli africani anziani avevano invece in mano un bastoncino terminante con un ciuffo di fili di cotone con cui le scacciavano, Mi accorsi poi a mie spese che queste mosche erano una vera e propria calamità, perché quando si apriva la bocca per parlare o sbadigliare vi si infilavano. La prima volta che mi
accadde, nello sforzo di espellerla arrivai al vomito. Poi ci feci l’abitudine Il mattino dopo sbarcammo e come prima cosa mi recai all’ospedale a incontrare il dottore a cui ero stato raccomandato dalla famiglia Vela. Fu molto amabile. Si divertì, e me lo disse, per il mio abito anacronistico e mi consigliò di provvedermi subito di un vestiario idoneo, cioè calzoncini e magliette. Dopo, con gli altri due colleghi, telefonammo alla sede della Ceretti ad Asmara e ricevemmo le istruzioni, sia per la pensione dove avremmo dovuto alloggiare, sia per il prossimo programma. Nei prossimi giorni avrebbero inviato un automezzo a prenderei per portarci ad Embatkalla, località sita a mille metri di altitudine, e a trentacinque chilometri prima di Asmara. Lì saremmo rimasti qualche giorno per affiatarci con l’ambiente, dopo di che saremmo stati portati, ciascuno, sul tratto di terreno che dovevamo rilevare. Dimenticavo di dire che ciò che mi sorprese e impressionò al nostro giungere a Massaua fu un’enorme catasta, sulla banchina del porto, di materiale di ogni genere dove ogni tanto venivano automezzi a caricare. In porto arrivavano continuamente navi che scaricavano ogni ben di Dio e poi ripartivano. Tutta questa merce, fra cui scatoloni con ogni tipo di cibo, avrebbe dovuto raggiungere al più presto l’altopiano per sottrarla al calore di Massaua. Ma solo due erano i mezzi di trasporto, ferrovia e strada, ed erano assolutamente insufficienti. La ferrovia perché a scartamento ridotto e con forti salite. La strada perché in costruzione: circa 120 chilometri per la maggior parte su terreno accidentato e con forti strapiombi e numerosissimi tornanti; per passarli; gli automezzi dovevano fare pericolosissime manovre, con le ruote che spesso arriva- vano all’orlo del precipizio. Vari automezzi sono infatti finiti giù. Vera- mente sarebbe stata utile la teleferica, ma eravamo solo ai rilievi. Comunque fu realizzata a tempo di record. Povera teleferica. Fece un ottimo lavoro fino a dopo la guerra mondiale, dopo di che fu praticamente abbandonata”, (Vedi appendice 1)

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A Massaua restammo un paio di giorni, così avemmo il tempo di visitarla. Ricordo principalmente il bar Cocchi sotto i portici, il negozio di alimentari Derviniotti, la farmacia e il calzolaio. Con questo calzolaio ebbi una storiella veramente buffa, che ci dimostra come il mondo sia veramente piccolo.

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Passati i due giorni, il terzo di buon mattino via verso Embatkalla sul cassone di un automezzo, come tre sacchi di patate, insieme a varie altre cose. La posizione era abbastanza comoda perché vi erano anche dei materassi che attutivano gli sbalzi dell’automezzo e poi potevamo vedere bene le cose da una posizione panoramica. Per proteggerei dal sole avevo comperato a Massaua un magnifico casco coloniale, un vero capolavoro

Il viaggio da Massaua ad Embatkalla, circa ottanta chilometri, durò quasi tutta la mattina.

Fu fantastico, la natura fin quando non si arriva sull’altopiano è brulla, arida, con tendenza in molte zone al rosso, e ha una sua particolare bellezza. Dopo circa quaranta chilometri da Massaua inizia la piana di
Sabarguma, una piana che è di poche decine di metri sul livello del mare, assolata e sabbiosa. Caldissima, d’estate si raggiungono temperature più alte di quelle di Massaua, ma è un caldo asciutto quindi sopportabile. La vegetazione era composta, a quel tempo, da piante basse e spinose ed ogni tanto si vedeva passare qualche cammello che andava chissà dove e roditori che uscivano da buche nella sabbia.

Durante i mesi estivi imparai a mie spese “che era bene; portarsi in macchina un thermos pieno di ghiaccio, perché se si buca una gomma in quella piana è pericoloso scendere dalla macchina per cambiarla, anche
se si ha il casco in testa. Invece se si ha del ghiaccio, se ne mette un pezzo sotto il casco, e tutto diventa più facile.

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Verso mezzogiorno giungemmo a destinazione. Con nostra grande soddisfazione notammo che il clima era piacevole. Assolato, ma asciutto e fresco di sera. Un posto adatto per una vacanza. In effetti tale era considerato dagli italiani che vivevano e lavoravano in Asmara e a Massaua. Lì, alcuni di loro avevano costruito delle casette che sono state in questi ultimi anni distrutte dalla guerriglia. Il cielo africano è sempre di un azzurro intensissimo e tale caratteristica si evidenzia maggiormente di notte, anche per il contrasto con la intensa luminosità delle stelle. La prima notte restammo varie ore in ammirazione di un così meraviglioso spettacolo che dava veramente il senso del divino. lo ne ero completamente calamitato e affascinato. Era una notte da innamorati, ma gli unici amori erano per noi i ricordi. Rimanemmo in quel bel posto vari giorni. Così approfittammo per scoprirne i dintorni. Ma non v’ era nulla di notevole. Tutto brullo e con una vegetazione. Tantissime piante da sotto bosco, basse, tutte spinose. Uno di quei giorni scese da Asmara uno dei capi della Ceretti e ci spiegò come avrebbe dovuto svolgersi il nostro lavoro. Ognuno avrebbe avuto un tronco della lunghezza di una ventina di chilometri. TI percorso era già stato segnato e disboscato al completo per un tre o quattro metri. Noi dovevamo limitarci a fare il rilievo (dislivelli e distanze). TI mio tronco era fra Ghinda e il bassopiano. Passava in una valle nella quale, salvo i boscaioli e coloro che avevano stabilito il percorso, mettendo picchetti e segnali nei punti più alti, non era mai entrata anima viva. Ed era effettivamente arduo di entrarvi dato che la vegetazione era fittissima e come ho detto spinosissima. I fichi d’India, importati dalla Sicilia all’inizio del secolo per rinforzare i terreni lungo la ferrovia Asmara-Massaua, si erano diffusi infestando tutto il territorio, anche se i frutti divennero poi un alimento fondamentale per le genti locali. Poi ci dissero che quella zona era infestata da certi serpentelli, lunghi una ventina di centimetri, cioè più o meno come una matita, ciechi, ma velenosissimi. Bastava toccarli e di scatto si voltavano in su e morsica- vano, scaricando il veleno nel sangue del malcapitato, che in pochi minuti se ne andava al Creatore. Pericoli per noi non ce n’erano perché avevamo gli stivali, ma per i canneggiatori africani sì, perché usavano camminare a piedi nudi. Difatti uno di loro ci lasciò la pelle. TI primo giorno che piazzar il tacheometro, per le prime battute di rilevamento, fummo circondati dalle scimmie. Era la prima volta che ne vedevo così tante. Avevano tutte una coda molto lunga e il culo rosso. Ve n’erano di tutte le taglie. Si misero a cerchio attorno a noi, con le più grosse davanti. Forse erano i maschi. I più piccoli se li portavano le femmine sulla schiena. Erano evidentemente curiose e attratte dal tacheometro. Gli africani che erano con noi ci dissero di stare calmi e di ignorarle, badando a non fare gesti che potessero essere interpretati, dalle scimmie, in senso aggressivo. Ogni giorno erano nostre compagne di lavoro. Stavano lì per una decina di minuti, poi piano piano se ne andavano. Passavano a una certa distanza da noi guardando ci e poi si allontanavano a gruppi nel sottobosco. Ogni mattina e per tutta la
settimana di lavoro in quella valle, fu così. Lavoravamo a turno unico. Andavamo sul posto al mattino presto con l’automezzo che era stato posto a nostra disposizione, e verso le due del pomeriggio tornavamo al campo per il pranzo e per riposare. TI nostro alloggio fiancheggiava la strada che saliva da Massaua verso Asmara. Si sentivano così giorno e notte i rumori degli automezzi in movimento. Era una colonna ininterrotta di soldati e di materiali. Si sentiva nell’ aria che eravamo prossimi allo scontro. Non avevamo radio e giornali e le notizie ce le passavano i camionisti. Venimmo così a sapere che Mussolini aveva fatto, il2 ottobre sera, da Palazzo Venezia, un poderoso discorso alla nazione dicendo fra l’altro: «Un’ora solenne sta per scoccare nella storia della patria. Venti milioni di Italiani sono un cuore solo, una volontà sola, una decisione sola»

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Con le mie vicende eravamo rimasti alla fine di Ottobre del 1935, mentre rilevavo il percorso che la teleferica avrebbe avuto nella cosiddetta «valle delle scimmie». Appena ultimato questo tratto me ne fu affidato un altro nel bassopiano fra Dogali, e Massaua. Qui, a differenza del primo tratto, eravamo esposti al sole per tutto il giorno e non c’era nulla, al di fuori del casco, che potesse proteggerei dai suoi raggi micidiali. Si lavorava al mattino e alla sera e per le altre ore non c’era altra alternativa che passarle sotto la tenda, ma era una vera e propria sauna. Dopo il pranzo frugale con ciò che mi portavo al mattino da Massaua, dove passavamo tutti insieme la notte nella baracca della Ceretti, riuscivo anche a dormire. E’ proprio vero che quando si è giovani si riesce a dormire in qualsiasi condizione. Ora, se non prendo la solita pillola, resto tutta la notte con gli occhi aperti, Fp in quel periodo che mi giunse notizia che una ditta di Asmara, la Sabic di Roma, necessitava con una certa urgenza, dei geometri per dirigere Lavori stradali che la ditta aveva appaltato dal Genio Militare, nei territori da poco occupati dalle nostre truppe.
Correva voce che lo stipendio era quasi il doppio di quello che ricevevo dalla Ceretti. Va tenuto conto che la sistemazione logistica nel bassopiano era una frana e poi, che il lavoro di rilevamento, presto o tardi, avrebbe avuto temine. D’altra parte non solo l’idea di raddoppiare la paga, ma anche una certa sete di avventura, mi spinse verso la nuova direzione. Fu così che mi recai ad Asmara per verificare se le voci corrispondevano a verità. Ero anche curioso di vedere bene Asmara. Vi ero andato con i colleghi una volta, ma per poche ore, quindi l’avevo vista solo di sfuggita. Questa volta avevo un permesso di due giorni così mi ripromettevo di poterla vedere per bene. Ma la prima cosa che feci fu di andare all’ufficio della Sabic. Fui intervistato direttamente dall’ingegner Rossi che ne era il titolare. L’intervista fu brevissima. Esatta la notizia relativa allo stipendio, ma entro una settimana al massimo avrei dovuto partire. Il problema era di sganciarmi dalla Ceretti. Pensavo che fosse difficile, invece tutto andò liscio. Così in quattro e quattro otto passai le consegne a un collega che era giunto da poco dall’Italia e fui pronto per la nuova avventura

SEGUE IL PDF SULLA TELEFERICA MASSAWA – ASMARA.

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